Partito politico costituitosi il 18 gennaio 1919, alla vigilia delle prime
elezioni politiche italiane a suffragio universale maschile e a sistema
proporzionale. Nella nuova formazione partitica confluirono le varie istanze del
Cattolicesimo politico e le numerose branche dell'organizzazione cattolica,
diocesana e parrocchiale. Nel clima di generale confusione, instabilità
politica e crisi per i vecchi partiti laici che caratterizzò il
dopoguerra, questo nuovo partito venne a costituire un punto fermo e una
garanzia per quanti, cattolici e non cattolici, intendevano opporsi al movimento
socialista, senza peraltro condividere la politica borghese e laicista della
classe dirigente post-risorgimentale. I cattolici erano stati tagliati fuori
dalla vita politica attiva dal
non expedit decretato da Pio IX nel 1874 e
trasformato, nel 1886, da semplice dichiarazione di inopportunità, in una
legge che impegnava i militanti cattolici a non partecipare alla vita politica
del nuovo Stato. Negli anni seguenti, tuttavia, i cattolici erano rientrati
gradualmente nella vita politica in appoggio ai rappresentanti conservatori, pur
rimanendo aperto il contrasto tra la Chiesa e lo Stato italiano, colpito dalle
dure condanne lanciate da Pio IX nel 1864 attraverso il
Sillabo e
l'enciclica
Quanta cura. In seguito alle crescenti pressioni da parte
della società civile si giunse, col nuovo pontefice Pio X (enciclica
Fermo proposito) a una parziale revoca del
non expedit,
consentendo ai cattolici di votare per quei candidati che offrissero particolari
garanzie, in base alle indicazioni fornite dai vescovi. A partire dal 1904 un
gruppo di candidati dell'area cattolica, definiti per volere del Vaticano
"cattolici deputati" anziché "deputati cattolici",
entrò in Parlamento; una posizione di preminenza ebbe in quegli anni
Filippo Meda, leader del Cattolicesimo politico lombardo, che fu il primo
cattolico a essere nominato ministro (1916). Il semplice appoggio delle
organizzazioni diocesane ai candidati governativi (accordo Bonomi-Tittoni del
1904, Patto Gentiloni del 1913) cominciò a mostrarsi inadeguato in
seguito all'allargamento del suffragio. L'esigenza di un partito che
rappresentasse i cattolici impegnati nelle organizzazioni diocesane si
concretizzò nella formazione di due opposte correnti in seno al
Cattolicesimo, quella degli
integralisti intransigenti, che respingevano
le conquiste spirituali del mondo moderno e una visione laica dello Stato,
convinti di poter trarre un'ideologia politica unicamente dalle Sacre Scritture
e dalle encicliche pontificie, e quella dei
cattolici transigenti o
clerico-moderati, propensi alla collaborazione con il nuovo Stato
unitario. La posizione degli integralisti si era rafforzata dopo l'emanazione
dell'enciclica
Rerum Novarum di Leone XIII (1891), che rimase per molti
anni un punto fermo per quanti desideravano una società cristiana,
corporativa e interclassista, in contrapposizione alla società e allo
Stato borghese. Per quanto insistenti fossero le pressioni dei clerico-moderati
per una maggiore partecipazione politica, le alte gerarchie ecclesiastiche
ritennero opportuno avallare per un certo periodo l'intransigenza degli
integralisti. Dopo l'elezione di Pio X, che non aveva mai nascosto le proprie
simpatie per i clerico-moderati e l'insofferenza per quanti, dietro l'impulso
della
Rerum novarum, avevano assunto atteggiamenti di rottura
rivoluzionaria nei confronti dello Stato borghese, e il graduale ritiro del
non expedit, emerse la figura di Romolo Murri e dei suoi seguaci, fra i
quali si segnalò Luigi Sturzo. Costoro, fautori di un nuovo integralismo,
si dichiaravano democratico-cristiani, superando però il concetto di
"democrazia cristiana" introdotto dal teorico della dottrina sociale
cristiana Giuseppe Toniolo. Animati da un evangelico spirito di uguaglianza
sociale, intendevano sollecitare la Chiesa a impegnarsi nella lotta politica per
riconquistare la società italiana al Cristianesimo, sollecitandola,
contemporaneamente, a rinnovare la propria dottrina e le proprie strutture. Il
programma dei democratico-cristiani aveva sollevato la reazione dei ceti
privilegiati e la dura opposizione dei vecchi conservatori clericali,
nonché della maggioranza dei vescovi. Nel decennio successivo
all'elezione di Pio X, essi ricevettero colpi durissimi (nel 1909 fu comminata
la scomunica contro R. Murri, che era stato eletto deputato al Parlamento),
continuando tuttavia nella loro opera di costituzione di un grande partito dei
cattolici, che fosse democratico e laico, volto a un proselitismo di massa e,
quindi, concorrenziale con quello socialista. La loro azione fu favorita
dall'elezione a pontefice nel 1914 di Benedetto XV che, in passato, aveva
dimostrato simpatia per i democratico-cristiani. Con la nascita del
PPI,
nel gennaio 1919, i cattolici italiani rientrarono ufficialmente nella vita
politica, dopo 50 anni di astensionismo elettorale. L. Sturzo assegnò al
nuovo partito un chiaro programma sociale, a contenuto democratico, precisando
che si trattava di una formazione politica di ispirazione cristiana, ma non
clericale, anzi
sconfessionale, che non considerava la religione un
elemento di differenziazione politica. Il nuovo partito evitò un richiamo
esplicito alla democrazia cristiana su cui pesava ancora la condanna di Pio X e
della quale, del resto, il
PPI non condivideva l'impeto rivoluzionario,
nonché l'impegno relativo alla questione sociale e operaia. Nel
PPI era presente il senso dello Stato e della libertà politica,
anche se piuttosto deboli apparivano le tracce che lo collegavano alla
tradizione cattolica liberale (Manzoni, Lambruschini, ecc.) che aveva affermato
la separazione tra Chiesa e Stato, ciascuno dei quali operante in una precisa
sfera di competenza, senza interferenze che tendessero a ridurre la religione a
strumento di lotta politica. Nel suo programma, esso rifiutava, in politica
estera, l'imperialismo e propugnava il disarmo; in politica interna rivendicava,
tra l'altro, l'allargamento del suffragio universale alle donne, una
legislazione sociale tale da favorire la partecipazione dei lavoratori alla
proprietà dei mezzi di produzione e l'estensione della piccola
proprietà contadina, la diffusione dell'istruzione elementare, ecc. Nella
sua realtà oggettiva, il
PPI corrispondeva tuttavia solo in parte
al programma democratico enunciato dal suo fondatore e, sin dall'inizio, si
presentò tutt'altro che omogeneo e privo di equivoci. Indubbiamente, esso
nasceva in netta opposizione oltre che alle forze laiche anche a quelle
clerico-moderate che avevano trionfato sotto il pontificato di Pio X. Nel
dopoguerra il nuovo partito rappresentò un punto fermo per tutte le forze
politiche cattoliche. Il
PPI ammise nei propri organi direttivi anche i
rappresentanti di quella tradizione clerico-moderata e conservatrice, i
cosiddetti
conservatori nazionali, contro cui avevano lottato i
democratici cristiani. Conseguenza di tale politica fu la compresenza nel nuovo
partito di uomini e tendenze politico-ideologiche tra loro molto lontane, se non
opposte. Nonostante le enunciazioni di principio e la dichiarazione di don
Sturzo di non voler perseguire, con il nuovo partito, l'unità politica
dei cattolici, il vincolo unitario era chiaramente rappresentato proprio da
quegli elementi "confessionali" che i fondatori del partito (oltre a
Sturzo, parteciparono alla costituzione del
PPI Achille Grandi, Pietro
Campilli, Giuseppe Rodinò, Mario Cingolani, Umberto Merlin) negavano
dovessero costituire l'elemento di coesione interna. Pertanto, per dover
equilibrare le opposte tendenze presenti al suo interno, il
PPI non
corrispose che parzialmente, nella realtà, ai programmi enunciati. Anche
la base programmatica, del resto, non era priva di dicotomie e contraddizioni:
partito di ispirazione cattolica, ma dichiaratamente aconfessionale;
interclassista e, nello stesso tempo, classista per le rivendicazioni sociali
che sosteneva; potenzialmente di governo e tendenzialmente di opposizione.
Certamente, ben pochi erano i punti di contatto tra uomini come Guido Miglioli,
noto organizzatore di scioperi e di lotte contadine nel Cremonese, e
clerico-consevatori come il marchese Filippo Crispoldi, che fu il primo oratore
del
PPI alla Camera. Inoltre, pochi erano i punti di contatto tra le
masse popolari, guidate dai parroci più avanzati e dai giovani
intellettuali cattolici di sinistra, e i vecchi conservatori provenienti dalla
disciolta Unione Elettorale, tra i quali erano presenti proprietari terrieri,
imprenditori industriali e amministratori delle numerose banche affiliate al
movimento cattolico e dalle quali provenivano buona parte dei finanziamenti per
i giornali fiancheggiatori del partito. Persino nel suo motto,
Libertas,
il
PPI si richiamava esplicitamente alla libertà per tutti i
cittadini: libertà di coscienza, di parola, di culto, di insegnamento,
ossia libertà religiosa contro ogni oppressione settaria; libertà
della scuola privata contro il monopolio della scuola pubblica; libertà
di tutte le associazioni contro qualunque privilegio; libertà degli enti
locali contro l'oppressione dello Stato burocratico accentratore. Per quanto
politicamente "autonomi", i suoi aderenti, in quanto cattolici, erano
tenuti a obbedire, nelle materie dogmatiche e morali, alle autorità
religiose. Gli attivisti del nuovo partito coincidevano per gran parte con gli
stessi attivisti delle associazioni di Azione Cattolica, Unione Donne,
Federazione Universitaria, Gioventù Cattolica, che erano alle dirette
dipendenze delle autorità ecclesiastiche. Contribuì notevolmente
alla rapida crescita e alle fortune elettorali del
PPI il suo
interclassismo, che gli consentì di abbracciare il più vasto arco
di forze sociali. Il
PPI tenne il suo primo congresso nel giugno 1919 a
Bologna, sotto la presidenza di Alcide De Gasperi, e alla fine dell'anno poteva
già contare su 2.700 sezioni con oltre 100.000 tesserati. Inoltre poteva
confidare sull'appoggio di una ventina di giornali quotidiani e di un centinaio
di settimanali a diffusione locale e nazionale, nonché sull'alleanza
della Confederazione Italiana dei Lavoratori, che contava oltre 1.000.000 di
iscritti. Mentre nei grandi centri industriali le sue fortune furono limitate,
poiché la grande maggioranza del mondo operaio rimase legata alla CGIL e
al Partito Socialista, nelle campagne il
PPI riuscì a strappare ai
socialisti circa la metà dell'elettorato contadino. Nelle elezioni del
novembre 1919 il
PPI ottenne 1.167.354 voti, pari al 20,6%, e
portò alla Camera 100 deputati, contro 156 socialisti e 239 appartenenti
ai vecchi raggruppamenti di Governo. Ciò comportò una nuova
divisione del Parlamento in tre schieramenti, nessuno dei quali poteva contare
su un numero sufficiente di deputati per dar vita a un Governo. In questa
situazione, i popolari vennero a costituire il perno della bilancia. La
debolezza del partito consisteva soprattutto nella sua mancanza di coesione
interna e nella preoccupazione dei suoi dirigenti centristi di salvaguardarne
l'unità, evitando ogni ragione di scontro frontale tra i progressisti,
capeggiati da Miglioli, che proponeva una collaborazione con i socialisti, e i
conservatori, altrettanto intransigenti nell'accettare qualsiasi dialogo con la
sinistra marxista. Questa situazione comportò un notevole immobilismo,
ripercuotendosi negativamente sulla vita politica del Paese, nel momento in cui
cominciava a salire l'ondata fascista. Caduto il Governo Nitti e costituitosi un
nuovo ministero presieduto da Giolitti, si verificò una serie di eventi,
tra cui l'occupazione delle fabbriche nel settembre 1920, dai quali trassero
vantaggio i fascisti. Nel maggio 1921 furono indette nuove elezioni che Giolitti
contava di vincere alla testa di un "blocco nazionale" comprendente,
oltre ai liberali, anche i nazionalisti e i fascisti. Esso riuscì a
ottenere solo poco più di un centinaio di seggi, 35 dei quali andati ai
fascisti. Nonostante la scissione dell'ala comunista, il Partito Socialista
conquistò la maggioranza relativa del nuovo Parlamento (120 seggi, oltre
ai 25 andati ai riformisti indipendenti e i 15 conquistati dai comunisti). I
popolari aumentarono la propria rappresentanza, conquistando 107 seggi, e
appoggiarono il Governo Bonomi, rimasto in carica dal 1921 al febbraio 1922.
Dopo aver respinto la proposta di alleanza con il Partito Socialista, avanzata
da Filippo Meda, votarono in maggioranza a favore del Governo Mussolini,
costituitosi dopo la "marcia su Roma". Quando, alla fine del 1923,
venne presentata la legge elettorale Acerbo, in base alla quale il partito o la
coalizione che avrebbe ottenuto il maggior numero di voti avrebbe
automaticamente ottenuto alla Camera la maggioranza dei due terzi dei seggi, i
popolari si dichiararono contrari, ma poiché conservavano ancora la loro
fiducia al Governo, decisero di limitarsi all'astensione dal voto. 32 di essi si
opposero a questa decisione (una parte votò contro e una a favore) e
furono costretti a lasciare il partito. Anche alcuni senatori particolarmente
legati al Vaticano si dimisero e questo gesto venne da varie parti interpretato
come un segno manifesto della fine dell'appoggio della Chiesa a un partito che
cominciava a mostrarsi troppo critico nei confronti del Governo mussoliniano.
Don Sturzo fu costretto a dimettersi dalla segreteria politica del
PPI
(luglio 1923) e fu sostituito da un triumvirato composto da Rodinò,
Gronchi e Spataro. Nel maggio 1924 la segreteria politica venne assunta da A. De
Gasperi, dopo che le elezioni dell'aprile 1924, svoltesi nel clima di violenza e
di brogli denunciati da Matteotti, avevano dato il 65% dei voti al
"listone" liberal-fascista. I popolari avevano ottenuto 650.000 voti
sui 2.800.000 conquistati complessivamente dalle minoranze. Quando poi, al tempo
dell'Aventino, i popolari si affiancarono ai socialisti, "l'Osservatore
Romano" condannò questa "empia" unione e don Sturzo,
nell'ottobre 1924, fu tra i primi antifascisti a dover prendere la via
dell'esilio, mentre il
PPI subiva nuove diserzioni e la resistenza di
quanti erano rimasti veniva mortificata dalle pressioni delle autorità
ecclesiastiche. Giuseppe Donati, direttore del quotidiano del
PPI
"Il Popolo", aveva nel frattempo iniziato una coraggiosa battaglia
antifascista che culminò nella denuncia al Senato, quale Alta Corte di
Giustizia, del generale De Bono, capo della polizia, indicato come
favoreggiatore degli assassini di Matteotti. Nel giugno 1925 Donati fu costretto
a lasciare l'Italia e nel dicembre successivo De Gasperi dovette lasciare la
segreteria del partito. Dopo aver tentato di rifugiarsi nel nativo Trentino,
venne arrestato e condannato (maggio 1927) a quattro anni di reclusione per
tentativo di espatrio clandestino. 15 anni dopo era nuovamente De Gasperi a
promuovere la ricostituzione del partito, che assumeva la nuova denominazione di
Democrazia Cristiana (V.).